“Slow Water” di Stephan Crump veicola una musicalità aleatoria ma esteticamente ricchissima. Una riflessione sugli spazi e sul mosaico di dettagli di cui si nutre la musica, più che sulle filiazioni stilistiche messe in mostra
Per inquadrare nella giusta prospettiva il nuovo disco del contrabbassista statunitense Stephan Crump dovremmo forse utilizzare le chiavi di lettura che di solito riserviamo all’ambient. Riflettere cioè più sugli spazi e sul mosaico di dettagli di cui si nutre la musica piuttosto che sulle filiazioni stilistiche messe in mostra, o magari farci conquistare dallo svolgimento tematico che anima gli scorci sonici che si alternano in questi 67 minuti di musica piuttosto che da concetti come melodia, struttura e interplay.

La Slow Water del titolo è un omaggio al libro di Erica Gies, Water Always Wins – «un viaggio pieno di speranza attorno al mondo e nel tempo, per scoprire modi migliori di vivere il nostro rapporto con l’acqua», si legge sul sito internet dell’editore del testo – ma il “senso” di questo onorare uno degli elementi più importanti presenti in natura ci pare stia soprattutto nell’impressionismo musicale che contraddistingue le 16 tracce dell’album. La musica diventa dunque una sostanza inafferrabile, capace di cambiare forma a seconda del contenitore in cui la si mette – ammesso che esistano questi contenitori: di cosa stiamo parlando? Di jazz? Classica? Contemporanea? – e dotata di un’eleganza che fa delle coloriture armoniche e del risultato d’insieme i cardini di tutto il discorso.
Si perché già dalla formazione strumentale che accompagna il contrabbasso del padrone di casa – spesso suonato con l’archetto – si intuisce che le cose potrebbero essere meno scontate e più intriganti del previsto: Patricia Brennan al vibrafono, Joanna Mattrey alla viola, Yuniya Edi Kwon al violino, Jacob Garchik al trombone e Kenny Warren alla tromba sono bravissimi a coordinare le loro timbriche limpide ma al tempo stesso spumose verso una musicalità in un certo senso aleatoria, ma esteticamente ricchissima e caratterialmente riflessiva.
Non sono mai stato interessato a rientrare in un genere. Ci sono molte tradizioni musicali diverse che mi hanno influenzato e ispirato. In questo progetto, volevo che il tema, la ricerca e l’ispirazione proveniente dall’acqua, da queste zone umide e dai castori, guidassero la musica
Stephan Crump, intervista a Downbeat
I tempi sono spesso dispari, i suoni empatici ed esplorativi, le atmosfere sospese e indefinite, nonostante il ruolo di “guida partecipata” che talvolta tocca agli ottoni (Bogged). Eppure parliamo di una materia tutt’altro che asettica, anzi talmente significativa da portare alla scoperta di nuove venature musicali e piacevolissimi mood quasi senza accorgersene (a volte si ha l’impressione di ascoltare le peripezie di un Henry Threadgill, ma con una pacatezza e una ricchezza timbrica superiore), come accade in un’iniziale Sound (Brackish) che con le sue escursioni dinamiche sembra ricordare alla lontana gli intrecci strumentali di Ligeti.
Il disco ha raccolto consensi unanimi praticamente ovunque tra gli addetti ai lavori che seguono jazz e affini, e per una volta siamo d’accordo con il senso comune. Quel che è certo è che perdersi tra i suoi colori è un naufragare dolce che regalerà parecchie soddisfazioni a chi vorrà approfondire l’ascolto.