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Negli anni si sono perse le tracce degli One. L’unico album dato alle stampe dalla formazione statunitense è l’omonimo pubblicato nel 1972, fulgido esempio di un folk ibridato con rock e psichedelia che a distanza di 53 anni continua a sorprendere
C’è chi li ha definiti “light prog”, chi “raga rock” e chi “soft psych”. La verità è che il collettivo formato da Mark Baker (batteria), Reality “D” Blipcrotch (voce, percussioni), Roger Crissinger (organo, pianoforte), Frank Trevor Fee (basso), Donald Ensslin (chitarra, banjo), Marc Granat (chitarra, sitar, dulcimer), Sarah Oppenheim (voce, autoharp), Laurie Paul (voce, tanpura) e Theodore Teipel (flauto, armonica, pianoforte) non è solo il classico case study sfuggito ai radar della critica musicale più istituzionale e scomparso nel nulla dopo aver dato alle stampe un unico album d’esordio, ma anche una creatura peculiare dal punto di vista musicale.

I Nostri sintetizzarono nel disco omonimo uscito nel 1972 – poi ristampato in anni recenti con il titolo di Come, anche se in realtà il vinile della prima tiratura riportava chiaramente un “1” nella sezione del nome dell’album – un mix originale di folk, jazz, rock, frichettonismi assortiti figli di strumenti come il sitar, il dulcimer o la tanpura, e moltissimo altro. Una musica in cui convivevano sperimentazione e melodia, ricchezza strumentale e capacità di fondere tra loro linguaggi diversi in maniera organica e virtuosa. Tanto che ad ascoltare alcuni momenti di 1 viene quasi in mente la libertà espressiva del krautrock, non fosse che gli One arrivavano da Bolinas, ovvero una delle periferie californiane della controcultura americana degli anni Sessanta-Settanta, e non da qualche sobborgo di Colonia. Senza tacere il fatto che in formazione militava il già citato Roger Crissinger, qualche tempo prima tra le fila dei ben più noti Pearls Before Swine.
Tutto sembra fluire in modo semplice, in questo piccolo gioiellino di 5 tracce, ma in realtà nulla lo è veramente. Se l’introduttiva 1 Of a Kind fa pensare a dei Fairport Convention ancora più bucolici grazie anche a un magistrale uso del flauto, già la successiva II Car Raga suggerisce un lato più oscuro per questa cricca di capelloni figli di una Haight-Ashbury in salsa countryside: il brano è un raga costruito sul sitar, ma i vocalizzi della parte iniziale della traccia sembrano il parto di qualche rito ancestrale sconosciuto. Nella seconda frazione del brano ritroviamo di nuovo il folk ma è solo la calma prima della tempesta, che nello specifico corrisponde a un sabba elettrico su beat tribale in partenza di lì a poco e che non sarebbe dispiaciuto a band come gli Akron/Family.
Piccoli dettagli che portano a grandi stravolgimenti estetici, verrebbe da dire, come del resto accade anche nel brano che chiude il lato A del vinile: Free Rain sarebbe in tutto e per tutto da ascrivere al folk revival, se a un certo punto non si ascoltasse un coro in piena regola chiamato ad innalzare il mood verso toni epici abbastanza inconsueti per queste latitudini stilistiche. In Free Rain, come nella successiva 3 Songs, è il basso di Frank Trevor Fee a far da mattatore, con i suoi fraseggi dirompenti e vorticosi: nel secondo brano citato sembra di ascoltare inizialmente dei Jethro Tull più funky innamorati di certi arrangiamenti à la Van Morrison periodo Moondance, ma la deriva elettrica che conclude le danze, tra intrecci di chitarre psych-hard-blues e batterie/tastiere à la Santana, racconta un’altra storia. Al di là di tutto, una esemplare ostentazione di tecnica, scrittura e grande gusto musicale, oltre che centro nevralgico di tutto il disco con i suoi dieci minuti di durata.

E se si parla di gusto estetico, la ballad Old Englishhh posta in chiusura rivela ancora una volta un albero genealogico radicato nella Gran Bretagna di Pentangle e compagnia. Eppure anche in questo caso la band di Bolinas ci mette del suo, prima con una voce femminile che sembra il prototipo di quella che si ascolterà l’anno successivo nella The Great Gig in the Sky dei Pink Floyd, e poi con un mood jazzato alla chitarra acustica che si rivela tutt’altro che sconveniente.
Una girandola di riferimenti che non impedisce al disco di funzionare a dovere grazie anche alla grande creatività messa in campo. E chissà che il carattere “sopra le righe” del cantante della band, Reality D. Blipcrotch, non abbia avuto un’influenza determinante sul materiale: il sito Rockasteria – uno dei pochissimi portali web in cui si trovano informazioni sugli One, se si eccettua un blog “ufficiale” con materiale d’archivio gestito da alcuni ex musicisti – ne parla come di un «uomo misterioso», ex marine ed ex attore capace di avanzare richieste assurde all’etichetta discografica responsabile della pubblicazione dell’album (la Grunt Records dei Jefferson Airplane), come ad esempio quella di creare un disco in vinile che si autodistruggesse dopo l’ascolto. Tutto in linea con un periodo storico in cui anche il surreale trovava una singolare ragion d’essere, grazie alla consistente “accelerazione” garantita da droghe psichedeliche e non. In ogni caso 1 rimane un album conturbante e da riscoprire, testimonianza della classe cristallina di una band immeritatamente dimenticata.
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È piuttosto complicato recuperare 1, dal momento che attualmente non ci sono ristampe disponibili sul mercato. Se si eccettua una versione in streaming su Tidal (qualcuno ne parla in rete e gli crediamo sulla parola, visto che non frequentiamo la piattaforma), l’unico modo per apprezzare la musica di questo disco su un supporto ufficiale rimane la copia fisica in vinile (o in CD) recuperata in qualche negozio specializzato (è il nostro caso), su Discogs o magari in un mercatino dell’usato. Come spesso accade, dunque, ci viene in aiuto YouTube, grazie al quale potete ascoltare tutti i brani della tracklist.