Poesia punk-rock: “Catholic Boy” della Jim Carroll Band

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Nonostante una carriera incentrata prevalentemente sulla scrittura e sui reading, Jim Carroll è stato anche un musicista. Ed è forse in questi dieci brani che si colgono meglio la grandezza e l’immediatezza dei suoi versi: come trasformare una New York spietata e ricca di personaggi al limite in una forma poetica commovente

Patti Smith lo ha definito più volte «il miglior poeta della sua generazione». Jack Kerouac, riferendosi al libro autobiografico Jim entra nel campo da basket (The Basketball Diares), notò come a soli tredici anni scrivesse meglio dell’ottantanove per cento degli autori allora in attività. Per William S. Burroughs era «uno scrittore nato». Emidio Clementi dei Massimo Volume lo ricorda come un passaggio fondamentale della sua formazione nel brano Inverno ’85, citandolo nei versi «Per tutto l’inverno dell’85 / Ho passato i miei pomeriggi di fronte allo stereo / In camera di mio fratello / Ad ascoltare Wicked Gravity di Jim Carroll / Mi muovevo al ritmo della musica / Immaginando il modo in cui lui poteva muoversi / Mi muovevo al ritmo delle chitarre elettriche / Tutto quello che avrei voluto era essere lui / Nell’attimo in cui canta “Mi sento come il soffitto di una chiesa bombardata”».

Copertina del disco “Catholic Boy” della Jim Carroll Band

Nel 1980, quando James Dennis Carroll pubblica il disco Catholic Boy a nome Jim Carroll Band, ha già vissuto una vita intera e sta per iniziarne un’altra. Ha solo 30 anni, ma è passato attraverso ogni genere di esperienza: è stato un promettente giocatore di basket e uno studente modello, ma anche un eroinomane capace di prostituirsi in giovanissima età per procurarsi i soldi per la droga; sull’onda di una fortissima passione per poeti come Allen Ginsberg e Frank O’Hara, è diventato uno scrittore affermato negli ambienti della cultura americana meno allineata con libri come il già citato Jim entra nel campo da basket e le raccolte di poesie Organic Trains, 4 Ups and 1 Down e Living at the Movies; ha lavorato per Andy Warhol e frequentato un po’ tutti i protagonisti del sottobosco artistico della New York di quel periodo, compresi Patti Smith, Bob Dylan e i Velvet Underground è lui che regge il microfono del registratore la sera del concerto che diventerà il disco Live at Max’s Kansas City della band di Lou Reed.

Comincia a “bucarsi”a 13 anni, in una New York che diventerà per Carroll una fucina di storie estreme spesso vissute in prima persona e in grado di stimolare la sua produzione letteraria come del resto anche i testi di questo disco d’esordio. Dimostrazione ne è soprattutto la People Who Died posta in chiusura del lato A del vinile: tra dodicenni che sniffano colla, quattordicenni morti di leucemia e amici uccisi in Vietnam, caduti dai tetti dei palazzi o finiti sotto i treni della metropolitana, il brano rappresenta il suo testamento più noto e sofferto. Un atto d’amore tragico mascherato da irresistibile punk & roll à la Modern Lovers, talmente fortunato da finire in blockbuster movie come E.T. l’extraterreste o Suicide Squad, diventando poi nel tempo l’oggetto di varie riletture (tra cui quella di John Cale).

You get nothing back for all you’ve saved
Just eternity in a spacious grave

Nothing is true”, Jim Carroll Band

Per buona parte degli anni Settanta Carroll vive in California: si è trasferito lì su insistenza della poetessa Anne Waldman per sfuggire alla tossicodipendenza, ma anche in cerca di solitudine, ispirazione e nuovi stimoli. Nel 1978 è a San Diego, a un concerto dell’amica Patti Smith (nel frattempo diventata una icona rock grazie a dischi come Horses e Radio Ethiopia), e gli viene proposto di salire sul palco al posto della band di supporto per recitare alcuni suoi versi accompagnato dal Patti Smith Group. Smith lo presenta come la persona che le ha insegnato a scrivere poesie, e l’evento è un tale successo da convincere Carroll che la musica e le canzoni potrebbero essere davvero un veicolo ideale per la sua scrittura. «Quando feci lo show con Patty Smith – si legge nel libro Jim Carroll. Punk Ribelle Poeta di F.T. Sandman (Federico Traversa) – compresi che potevo farcela. Fu incredibilmente divertente, intenso, spaventoso e bellissimo allo stesso tempo. Pensai che fosse una naturale estensione del mio lavoro. Qualunque poeta, mettendo da parte il rispetto per il proprio pubblico, potrebbe diventare una rockstar». Carroll è anche fortunato, perché di lì a poco potrà contare sull’aiuto di musicisti capaci come Brian Linsley (chitarra), Steve Linsley (basso), Terrell Win (chitarra) e Wayne Woods (batteria), una rock band in piena regola che si unisce al newyorkese ribattezzandosi Jim Carroll Band. 

La partnership si rivelerà feconda non solo a livello umano ma anche dal punto di vista professionale, se è vero che tra gli autori dei brani di Catholic Boy compaiono a turno praticamente tutti i musicisti della formazione (anche se la questione dei crediti, per ammissione dello stesso Carroll, è abbastanza controversa). I cinque incidono un demo, suonano inizialmente nel giro dei club di San Francisco ottenendo buoni riscontri, ma capiscono in fretta che per arrivare davvero bisogna trasferirsi a New York. Una volta in città, grazie all’interessamento di Keith Richards dei Rolling Stones e di Earl McGrath della Rolling Stones Records, la band registra l’album d’esordio pubblicandolo via Atco (Atlantic), un lavoro che ha tutto l’aspetto di una convergenza virtuosa di ottimi professionisti. A produrre ci sono infatti il già citato McGrath e quel Bob Clearmountain che dagli anni ottanta in avanti lavorerà con star come Bruce Springsteen, Roxy Music, Brian Adams, Pretenders; tra i musicisti ospiti spiccano Bobby Keys (sassofonista dei Rolling Stones) e Allen Lanier dei Blue Öyster Cult; il mastering è opera del perfezionista della qualità audio Bob Ludwig; la foto di copertina che ritrae Carroll con i suoi genitori è uno scatto di Annie Leibovitz (tra i suoi soggetti fotografici ci saranno John Lennon, Demi Moore, Leonardo di Caprio e moltissimi altri).

In Catholic Boy però c’è soprattutto Jim Carroll, un Lou Reed allampanato, esangue, più punk e decadentista rispetto al leader dei Velvet Underground, ma poetico e urbano allo stesso modo, impegnato a dar vita nei testi delle canzoni ai mille personaggi incontrati in una metropoli senza regole, mentre la musica parla la lingua di Patti Smith Group, New York Dolls, Lou Reed, Television, Iggy Pop. La People Who Died di cui si diceva a inizio articolo diventerà il brano trainante del disco, ma non è il solo episodio degno di nota in un album che viene ritenuto – a ragione – come l’ultimo capolavoro del punk primigenio, pur non essendo solo un disco punk. 

Ne è testimonianza, ad esempio, una It’s To Late innestata su un giro di basso irresistibilmente wave che non sarebbe dispiaciuto ai primi Soft Boys, mentre l’introduttiva Wicked Gravity è pienamente calata nel suono newyorkese del periodo, quasi ci si trovasse di fronte a un Richard Hell più quadrato e meno deragliante. Carroll non ha il carisma sopra le righe di quest’ultimo, eppure allo stesso modo ha chiaro quel concetto di “blank generation” che andrà a informare il disco d’esordio di Richard Hell & The Vovoids, avendolo vissuto sulla propria pelle fin da bambino nelle strade di New York. Il timbro vocale del Nostro riassume la giusta spacconaggine da rocker in erba e al tempo stesso mostra una certa fragilità, un aspetto che emerge soprattutto in alcuni passaggi del disco, ad esempio nel «i miss them, they died» che si ascolta a un certo punto in People Who Died

L’autobiografica Catholic Boy è qualcosa di diverso: in quella cascata di riff di chitarra elettrica sembra di ascoltare il Lou Reed fisico e arrembante di Rock & Roll Animal, e versi taglienti come «when i felt the light I was worse then bored / I stole the doctor’s scalpel and I slit the cord» non smentiscono la prima impressione. Tutto credibile oltre ogni più rosea aspettativa, insomma, esattamente come quel proiettile sparato a velocità folle che è Three Sisters, tra rock & roll anfetaminico e primordiale e un tocco di complessità decisamente anni Settanta nelle variazioni dei fraseggi di chitarra.

Nel gioco delle citazioni finisce anche una delle poche ballad del disco, ovvero una Day & Night non troppo distante dalla Sweet Jane degli amatissimi Velvet Underground, mentre Nothing is True scodella un’indole da Bowie periodo The Jean Genie su una ritmica più serrata e certe aperture strumentali quasi hard rock. Crow è una dedica alla ex fiamma Patti Smith, e cita l’episodio della caduta dal palco della stessa avvenuto nel 1977 («it must be strange to just fall from the stage / and snap a bone that is so close to the brain»), mentre City Drops Into The Night, con le sue atmosfere spiccatamente urbane, sarà materiale prezioso per band come The Strokes.

Catholic Boy è forse lo zenith della Jim Carroll Band. Dopo questo album ce ne saranno altri, eppure è nei dieci brani qui raccolti che si colgono al meglio la grandezza, l’urgenza e l’immediatezza dei versi di un artista capace di trasformare la disperazione punk e bohémien della New York dei Settanta in una forma poetica cinica e al tempo stesso commovente. «Lo studio di Miller e di Rimbaud […] è stato ciò che più di ogni altra cosa mi ha spinto verso il rock – dichiarerà Carroll – Tutta la questione del tirare fuori il cuore, l’anima di ciò che si fa, e non solo l’aspetto intellettuale o presunto tale. Un bravo poeta lavora su entrambe le cose. Miller parla di registro interiore e di come un bravo poeta debba colpire un non letterato quanto un letterato».

La storia di Jim Carroll finirà l’11 settembre 2009 per un arresto cardiaco, decretando la fine dell’essere umano e l’inizio del mito. Così scriverà Lou Reed per annunciare la morte dell’amico: «Mi addolora informarvi della morte del talentuoso, magnifico Jim Carroll. I suoi libri, la sua poesia e le sue canzoni hanno fissato degli standard davvero alti per coloro che verranno dopo. Era l’eccellenza. Punto. Un cuore d’oro».

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