Alcuni documentari spingono sull’acceleratore della mitologia e degli aspetti più pittoreschi della vita di un musicista, celebrando il personaggio e l’epica oltre l’opera artistica. Altri vorrebbero spiegare la magia che si nasconde dietro il processo creativo, foraggiando la più classica delle curiosità da profani del pentagramma. Altri ancora esaminano un periodo particolare della carriera di un artista o magari il contesto musicale e sociale in cui tutto nasce e prende forma. Nel caso di Uzeda – Do It Yourself, pellicola che ripercorre la storia della band siciliana Uzeda, la regista Maria Arena sceglie un punto di vista più originale. Verrebbe quasi da definire il suo film un piccolo manifesto pseudo-neorealista su come costruirsi una solida reputazione negli ambienti della musica indipendente mondiale senza mai tradire la propria “visione” artistica. Un modo per raccontare una storia difficile e straordinaria al tempo stesso, partita dalla “provincia” e non ancora conclusa, dal momento che nel 2018 i Nostri hanno festeggiato i 30 anni di carriera (evento con cui si chiude il film).
Il vero valore aggiunto di Uzeda – Do It Yourself è però far capire a chi guarda che certe scelte di vita sono animate spesso da una grande passione, ma prevedono anche sacrifici in termini di aspettative sociali ed economiche: se da un lato nel film vengono infatti ricostruite le principali tappe della carriera della band catanese, tra dischi pubblicati, tour americani di spalla agli Shellac e session di registrazione per John Peel in Inghilterra, dall’altro si mantiene il focus su concetti come etica, libertà, creatività, rispetto, solidarietà, unità, indipendenza, amicizia e coraggio, e su ciò che significhi farli propri. Un bagaglio di sfumature ideologiche ed emotive che stride con il pragmatismo furbesco tanto in voga oggigiorno, e che in quegli anni novanta in cui il gruppo nacque discograficamente era il pane quotidiano di una scena “indie” che nutriva un tessuto di relazioni virtuose tra le band, per costruire un’alternativa più giusta e artisticamente coerente al mondo delle grandi etichette discografiche e della musica commerciale.
Ci sono alcuni momenti catartici nel documentario, ed è giusto citarli. Ad esempio il racconto della prima telefonata a quello che diventerà il principale mentore degli Uzeda, ovvero Steve Albini: il chitarrista della band, Agostino Tilotta, ne fa una cronaca appassionata, ricordando una surreale chiamata fatta agli studi Electrical Recording da un telefono pubblico di Catania e un demo spedito via posta al produttore americano. A parte l’emozione che suscita il racconto, l’aneddoto ci pare l’ennesima conferma di un modo di intendere la musica e i rapporti interpersonali basato sul rispetto reciproco e in grado di generare inaspettate convergenze creative.

Fa un certo effetto anche ascoltare la rievocazione di ciò che rappresentò la Catania degli anni Novanta per chi allora c’era, ovvero una città capace di diventare per qualche anno un polo di attrazione mondiale per la musica indipendente, tanto da meritarsi l’appellativo di Seattle d’Italia. Nel film ne parla un collezionista di memorabilia degli Uzeda intervistato in uno storico negozio di dischi della città, ed è davvero la testimonianza di un piccolo miracolo italiano che generò non solo connessioni importanti da una parte all’altra dell’oceano, ma anche una scena artistica locale assai florida, con personaggi come Francesco Virlinzi di Cyclope Records, Mario Venuti, Carmen Consoli, Cesare Basile, gli stessi Uzeda e molti altri.
Ci sono poi i racconti che gli Uzeda regalano a Patrick J Craven della UCLA, uno studioso americano arrivato in Sicilia per completare una tesi di dottorato e diventato parte integrante del documentario. Quello che emerge dalle interviste che il suddetto fa ai musicisti è un punto di vista privilegiato sulle vicende alla base della storia della band che rende ancora più significativa una esperienza artistica unica nel suo genere. Una musica che diventa per chi la suona una forma di realizzazione personale, un’occasione di crescita individuale e un trampolino verso il mondo capace implicitamente di smarcare la Sicilia dal ruolo di isola geografica e mentale che tutti le attribuiscono.
Uzeda – Do it Yourself, insomma, non è solo un bellissimo documentario su una delle più grandi band italiane di sempre, ma anche una testimonianza importante per i musicisti di domani. La lezione è semplice: un’alternativa al conformismo è sempre possibile, se gli ideali sono alti e si è disposti a trasformare la propria vita in un’opera d’arte.