Copertina di "TEN", ristampa dell'omonimo album dei C'mon Tigre

Copertina di “TEN”, ristampa dell’omonimo album d’esordio dei C’mon Tigre

C’mon Tigre: “TEN” è la ristampa per i dieci anni dell’omonimo disco d’esordio della band

«C’mon Tigre are two people. C’mon Tigre is a collective of souls»: Computer Students ristampa il primo omonimo disco dei C’mon Tigre in una splendida edizione in doppio vinile: “TEN”

Copertina dell’omonimo disco d’esordio dei C’mon Tigre

Una canzone è un racconto, se la sua forma migliore è la forma canzone tipica, va bene. Non siamo molto orientati a quel tipo di scrittura semplicemente perché ci manca un’attitudine spontanea a farlo. In parte quel modo di lavorare ti limita a rimanere all’interno di una strada tracciata e a noi invece piace perderci nei sentieri laterali.

C’mon Tigre in un’intervista a Billboard Italia

Uscito originariamente nel 2014, l’omonimo disco d’esordio dei C’mon Tigre mostrava già allora lo stile che da lì in poi sarebbe diventato il marchio di fabbrica della band. Un suono mutante, in bilico tra jazz, afrobeat, funk, trip hop, post-rock, ma soprattutto affezionato a uno svolgersi lento e articolato della narrazione musicale. Da un lato gli spazi ampi concessi a certi ottoni in stile Tony Allen, dall’altro le malinconie di un cantato quasi radioheadiano nel suo avvilupparsi su se stesso, al centro una sezione ritmica con una predilezione per i tempi “irregolari”. Il tutto organizzato in un progetto musicale corale, inteso come un “collettivo” piuttosto che come un’entità con un organigramma ben definito, e che ci è sempre parso un mimare le ensemble allargate di Fela Kuti. Un cantiere aperto in cui accogliere collaboratori anch’essi fondamentali nel dare forma al suono, in questo caso il compianto Enrico Fontanelli (Offlaga Disco Pax) ai synth, Rocco Favi alla tromba e al filicorno, lo human beatbox Simone Sabini, Ahmad Oumar alla drum machine e al mellotron, Dipak Raji allo stylophone, Jessica Lurie al sax tenore, Henkjaap Beeuwkes al sax alto, Danny Ray Barragan alla batteria, Paolo Berluti all’organo, Eusebio Martinelli alla tromba e all’eufonio, Pasquale Mirra al vibrafono e Malik Ousmane alle steel drums e al glockenspiel.

Tutto il sudore di un approccio “analogico” a una musica sospesa in un tempo e in un luogo indefiniti, a suo modo nostalgica e terzomondista eppure slegata dai cliché di genere (ad esempio nella minimale ma affascinante Rabat, nella ritmicamente irresistibile Federation Tunisienne de Football o magari nella ragnatela di contrappunti di Life As A Preened Tuxedo Jacket ), ma anche interessata ad aprirsi a mondi altri: accade ad esempio che in A World of Wonder la batteria esprima una drum & bass metronomica per tre quarti di brano facendo pensare al Jaki Liebezeit dei Can, per poi lasciar spazio a cluster di elettronica che sembrano rubati all’idm o all’industrial. Una distopia in forma di suono rintracciabile anche nelle uscite successive di una discografia sempre in crescendo e capace di articolare, puntata dopo puntata, complessità strutturali ancora più originali (ad esempio, nelle cadenze hip hop racchiuse dalla Underground Lovers pubblicata su Racines), a loro modo astratte e contaminate ma di grande impatto, grazie a una curiosità musicale mai appagata e a un suono valorizzato dall’interplay tra i musicisti.

Video del brano “Federation Tunisienne de Football”

Quell’Africa che cinque anni dopo gli I Hate My Village trasformeranno in un pulsare anfetaminico e trascinante (stiamo parlando dell’omonimo disco d’esordio della band di Alberto Ferrari, Adriano Viterbini, Marco Fasolo e Fabio Rondanini, anch’esso legato alle poliritmie ma in un modo decisamente più fisico ed elettrico) rielaborandola in un afro-blues con più di un punto di contatto con la tradizione musicale di Tinariwen, Tamikrest, Bombino e affini, i C’mon Tigre riadattavano per primi al loro immaginario: un universo sonoro quasi cinematografico in cui le maglie larghe del jazz accoglievano un approccio melodico liminale, raffinato e crepuscolare simile a quello di formazioni come i Blonde Redhead, e dove anche il trip hop atipico di un brano come December guadagnava un senso profondo mescolato a certe chitarre elettriche soul decontestualizzate.

Una musica brillante su disco, perché sorprendente e ricchissima di idee, ma esaltante soprattutto dal vivo: nel 2019 mi ritrovavo a scrivere per Sentireascoltare una recensione entusiastica di un concerto dei C’mon Tigre (altezza secondo album, ovvero il già citato Racines) al Bronson di Ravenna, evidenziando le virtù “taumaturgiche” dei loro suoni come antidoto contro la scarsa ambizione di molte produzioni musicali odierne. Allora ebbi l’impressione di assistere a un dialogo tra i musicisti costruttivo e mirato, fluido e timbricamente impeccabile, frutto di un rapporto paritario tra i membri del gruppo e di un approccio fondamentalmente jazzistico alla musica. Sei anni dopo, riascoltando questo disco le sensazioni sono le stesse, pur con tutti i distinguo del caso riservati a un esordio.

Nel 2014 C’mon Tigre usciva per la gloriosa Africantape, mentre nel 2025 è Computer Students a pubblicare una ristampa del disco se possibile ancora più curata e cruciale rispetto all’album originale. Nuovo mastering, nuovo booklet con testi dei brani e un bellissimo corredo fotografico/grafico, 2 diverse edizioni audiophile in doppio vinile curate in ogni dettaglio e contenute, come tutte le produzioni Computer Students, in una busta di alluminio sotto vuoto. Un degno tributo a un lavoro discografico che rimane una pietra miliare tra le produzioni musicali italiane degli anni Dieci e a una band che è tuttora un piccolo tesoro nazionale. 

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(…o compralo in vinile)