Spanish waltz per La Singla: “Never Let it End” di Albert Mangelsdorff Quartet

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Un quartetto al massimo della creatività che trae ispirazione in maniera quasi sinestesica da un’arte antica, riportandola ai dettami del free-jazz. Il risultato è un suono dalla modernità sconvolgente

A un certo punto del film di Paloma Zapata, La Singla, splendida pellicola uscita nel 2023 che ripercorre la storia della ballerina Antonia Singla, sorda dalla nascita eppure capace di diventare una star internazionale del flamenco, parte la title-track di Never Let It End dell’Albert Mangelsdorff Quartet. È un giro di contrabbasso pieno di groove e vagamente spagnoleggiante ad opera di Günter Lenz, su cui si innestano prima le “interferenze” del trombone di Mangelsdorff e poi le svisate nervose, frammentarie e in crescendo del sax di Heinz Sauer. Su disco il brano mostra, con il passare dei minuti (in totale sono quasi dieci), uno sviluppo melodico dei fiati sospeso tra jazz e malinconiche atmosfere gitano/balcaniche, in un’alternanza tra temi swinganti e improvvisazioni travolgenti caratterizzata da brusche dinamiche e vorticose enfatizzazioni free. 

C’è una sorta di “insistito” ritmico evidente nella musica che si ascolta, un gravitare attorno al centro armonico senza in realtà spostarsi di un centimetro da esso che è al tempo stesso fisico e metafisico, e che ti obbliga a ripetere l’ascolto più volte per godere appieno dei sincopati trascinanti e dell’interplay incredibilmente a fuoco tra gli strumenti. Nonostante la title-track – come del resto tutto il disco – sia stata incisa nel 1970, la batteria di Ralf Hübner mette in mostra un dinamismo nel fraseggio piuttosto attuale, che tuttavia sembra mimare nel suo svolgersi anche certe misure ritmiche reiterate e insistite proprie del flamenco. 

Copertina del disco “Never Let It end” di Albert Mangelsdorff Quartet

Del resto è proprio da lì che arriva Never Let It End: l’album viene registrato dopo che i musicisti dell’Albert Mangelsdorff Quartet hanno assistito ad alcune esibizioni della Antonia Singla citata in apertura, artista allora particolarmente nota in Germania, rimanendone impressionati. Da quelle esibizioni il quartetto ruba il linguaggio nervoso, crudo e istintivo del corpo, i suoni percussivi dei piedi che battono sul pavimento, gli sguardi arditi e magnetici di quello che ai tempi era il personaggio che sintetizzava meglio l’irruenza della cultura gitana e l’eleganza del ballo tradizionale spagnolo. Caratteri che La Singla possedeva innati nonostante una storia personale turbolenta e virtuosa al tempo stesso, modellati da un’infanzia poverissima trascorsa nella comunità gitana del barrio del Somorrostro, a Barcellona, e dall’handicap della sordità, e che sfoceranno in un successo arrivato in giovanissima età – tale da portarla a conoscere personalità come Salvador Dalì, Jacques Custeau e Paco De Lucia – e in una altrettanto veloce crisi personale.

Mangelsdorff e sodali recuperano quasi per osmosi il (neo)realismo potente di un talento limpido cresciuto in un contesto difficile e di una tradizione musicale capace di infettare la storia jazz in più di un frangente – pensiamo solo allo Sketches of Spain di Miles Davis – e lo traspongono in un jazz coraggioso che sarà un punto di svolta della discografia del padrone di casa. Mangelsdorff stesso dichiara nelle note interne al vinile: «Non ricordo di aver mai sperimentato una tale euforia nel momento di registrare un disco [come quella che ho provato registrando Never Let It End, ndr]. E per euforia intendo la coesistenza di estasi e precisione, esuberanza e consapevolezza». 

Trailer del film “La Singla” di Paloma Zapata

Consapevolezza che, ad esempio, in Certain Beauty ammicca a Charles Mingus con una melodia ampia e articolata senza tuttavia negarsi una parte improvvisata ricca di circonvoluzioni umorali, mentre 13th Color lascia spazio inizialmente a un sax “stritolato” à la Peter Brötzmann per poi concedere un momento narrativo al trombone di Mangelsdorff che serve a mo’ di introduzione per il delirio free-form successivo. Quello che accade in Open Mind e Nachworth è invece la dimostrazione di quanto afferma lo stesso Mangelsdorff in riferimento a questo disco: «A un certo punto l’armonia si è dissolta. Suonavamo solo centri sonori, e anche il ritmo si è dissolto sempre di più. Lo sviluppo è stato tale che a un certo punto non abbiamo suonato più alcun tema». Uno swing che lambisce quasi l’atonalità per poi compattarsi su un muro di improvvisazione selvaggia e senza restrizioni di sorta, aperta anche a solismi riservati ai singoli strumenti che sembrano mimare ancora una volta quelli del flamenco.

Nessuno in tempi recenti ha pensato di ristampare Never Let It End, tant’è che il disco è praticamente introvabile per l’acquisto in formato fisico – a meno di non rivolgersi a Discogs, ma i prezzi non sono popolari – ed è ascoltabile esclusivamente in alcune piattaforme di streaming. È un peccato, perché la musica contenuta nei sette brani in scaletta mostra un quartetto al massimo della creatività trarre ispirazione in maniera quasi sinestesica da un’arte antica, riportandola ai dettami del free-jazz. Il risultato è un album dalla modernità sconvolgente, che meriterebbe a pieno titolo una citazione tra i migliori LP di sempre.

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