“Food For Profit”, il cibo come atto di supremazia

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Non è una battaglia tra chi consuma carne e chi non la mangia: si tratta invece di decidere se sostenere indirettamente un sistema di produzione del cibo che crea innegabili problemi etici, sociali, ambientali e politici

Molti altri film e molte altre inchieste giornalistiche prima di Food For Profit – tra cui quelle di Report, trasmissione televisiva con cui Innocenzi ha collaborato a più riprese e che presenta questo documentario in versione quasi integrale – avevano mostrato spaccati inquietanti sulle condizioni di vita degli animali cresciuti negli allevamenti intensivi e destinati a finire sulla nostra tavola. La pellicola di Giulia Innocenzi e Pablo D’Ambrosi è tuttavia una delle prime ad affrontare il tema allargando l’indagine giornalistica a livello europeo ed evidenziando il sistema di connivenze e protezione politica di cui godono i big dell’agroalimentare, ovvero i principali promotori di un sistema di produzione industriale che ha conseguenze disastrose sulla vita degli animali, sui cambiamenti climatici e sulla salute di noi tutti. 

Non stiamo parlando di un film che vuole a tutti i costi portare acqua al mulino delle frange più estremiste del vegetarianesimo o del veganesimo, bensì di un lavoro giornalistico circostanziato ed efficace che lascia allo spettatore il compito di trarre le conclusioni del caso. Quel che è certo è che non si può rimanere insensibili di fronte alle terribili immagini che scorrono sullo schermo nell’ora e trenta di documentario. Si parte da un allevamento nel Polesine in cui i polli che non raggiungono le dimensioni necessarie per entrare nel circuito della lavorazione industriale vengono uccisi a bastonate dagli operatori; si passa poi a un allevamento intensivo di mucche da latte nei paraggi di Berlino in cui gli animali si ammalano di mastite – ovvero un’infiammazione al tessuto mammario trasmissibile anche all’uomo – ma continuano ad essere munti, inseminati artificialmente, obbligati a produrre latte senza sosta e sottoposti a trattamenti antibiotici quotidiani; si arriva a Zuromin, in Polonia, una delle città con la più alta concentrazione di allevamenti intensivi di polli d’Europa, flagellata da altissimi tassi di emissioni di ammoniaca nell’aria pericolosi anche per l’uomo; ci si sposta infine nella Mursia spagnola, dove monumentali depositi di deiezioni di maiali provenienti da realtà che assomigliano più a un incubo che ad allevamenti di animali hanno inquinato la falda acquifera di un’area già a scarsissima quantità d’acqua, causando morie di pesci addirittura in mare.

Non solo la violenza ingiustificata sugli animali, dunque, ma anche conseguenze irreversibili sul ciclo naturale della vita, sull’ambiente e sugli individui. La diffusione di epidemie sempre più frequenti come l’aviaria, l’antibiotico-resistenza umana dovuta all’assunzione continua di questo tipo di medicinale tramite una alimentazione ricca di carne proveniente dagli allevamenti intensivi, e persino lo sfruttamento dei lavoratori all’interno delle filiera di produzione: le immagini e le testimonianze raccolte nel più grande macello d’Europa, ospitato dalla “civilissima” Germania, mostrano come in un sistema che guarda solo ad aumentare il profitto nel minor tempo possibile, anche gli uomini vengano ridotti a “bestie” senza la minima garanzia, né a livello lavorativo né personale.

E l’Europa cosa fa in questo scenario? Continua a concedere finanziamenti a pioggia a un modello di produzione che fa acqua da tutte le parti, grazie anche al lavoro instancabile delle lobby dei grandi produttori e a politici ben disposti ad ascoltarle, quando non proprio a sostenerle. Nel film si citano l’italiano Paolo De Castro e la spagnola Clara Aguilera, ma i due non sono certo i soli a non rimanere scandalizzati di fronte alle proposte di editing genetico estremo – per fortuna totalmente inventate – che il lobbista infiltrato dagli autori di Food For Profit propone loro (maiali a sei zampe, mucche con due organi riproduttivi). Tutto concesso anche quando si progettano le aberrazioni più estreme, insomma, a patto di aumentare produttività e guadagni.

Locandina di “Food For Profit”

A un certo punto del film c’è un bel pensiero del filosofo Peter Singer, di cui vi riportiamo un estratto: «Gli allevamenti intensivi sono una applicazione della tecnologia a un’idea: che gli animali siano a completa disposizione dell’uomo. Li riteniamo ad un livello inferiore al nostro, e da loro vogliamo ottenere prodotti a un prezzo più basso possibile. Degli animali abbiamo due visioni contrapposte: da una parte ci sono quelli che amiamo, che consideriamo come individui, solitamente cani o gatti; dall’altra ci sono quelli che finiscono sui nostri piatti, e rigettiamo l’idea che anche loro siano individui. Polli, maiali, vacche: non c’è dubbio che provino dolore». Una riflessione a suo modo spietata, ma che ben circoscrive un atteggiamento evidentemente diffuso e che certamente non ci fa onore.

Film come Food For Profit confermano dunque che la questione non si può ridurre a uno scontro tra tifoserie opposte, ovvero tra chi consuma carne e chi non la mangia: si tratta più realisticamente di decidere se sostenere indirettamente un sistema di produzione del cibo che crea innegabili problemi etici, sociali, ambientali e persino politici, o agire nel nostro piccolo per cambiare le cose. Magari anche solo limitando il consumo di carne o scegliendo piccoli produttori locali invece della grande distribuzione. Il tutto per evitare l’ennesima distorsione causata da un modello capitalistico che tutto travolge e nulla rispetta, con buona pace di chi nel film si preoccupa più della concorrenza tra mercato alimentare europeo e mercato alimentare cinese, invece che della qualità di quello che mangia ogni giorno. 

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